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Eroi della mitologia

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    00 29/05/2006 17:03
    RE ARTU'

    è un'importante figura della mitologia della Gran Bretagna, dove appare come la figura del monarca ideale sia in tempo di pace che in guerra. É il personaggio principale nel ciclo di leggende conosciuto come Materia di Britannia, anche se c'è disaccordo sul fatto che Artù, o una persona reale su cui il personaggio sia stato ricalcato, sia veramente esistito. Nelle sue più antiche citazioni e nei testi in gaelico non viene mai definito con il termine re: i primi testi si riferiscono a lui con il titolo di dux bellorum ("signore della guerra"), e antichi testi altomedievali, sempre in lingua gaelica, lo chiamano ameraudur ("imperatore", prendendo il termine dal latino.

    Il nome stesso verrebbe dalla radice celtica Arzcon significato di orso, simbolo di forza, stabilità e protezione, caratteri anche questi ben presenti in tutta la leggenda: era un uomo ritenuto forte, posato, e, in quanto re, garante della sicurezza dei suoi sudditi. Ricordiamo anche che, nella civiltà celtica, l'orso è soprattutto l'animale emblematico della royauté.

    Altre grafie esistenti sono Arzur, Arthus o Artus.

    Il termine "Pendragon" gli viene invece dal padre, Uther Pendragon.

    Artù nella storia

    La possibile storicità di Re Artù è stata a lungo dibattuta dagli studiosi: una scuola di pensiero ritiene che abbia vissuto nel tardo V secolo o agli inizi del VI secolo, che fosse stato d'origini britoromane, e che avesse combattuto contro il paganesimo sassone. I suoi probabili quartieri generali si trovavano in Galles, Cornovaglia, o ad ovest di ciò che sarebbe diventata l'Inghilterra. Ad ogni modo, le controversie sul centro del suo potere e sul tipo stesso di potere che esercitava continuano tutt'oggi.

    Esponenti di questa scuola, principalmente Geoffrey Ashe e Leon Fleuriot, hanno concluso che l'identità di Artù potesse coincidere con quella di un certo Riothamus, "re dei Brettoni", attivo durante il regno dell'imperatore romano Antemio. Sfortunatamente, Riothamus è una figura minore, di cui sappiamo ancora poco, e nemmeno gli studiosi sono in grado di capire se i bretoni che comandava erano i britannici o gli abitanti dell'Armorica. Altri studi portano ad identificarlo con Ambrosius Aurelianus, un signore della guerra britoromano che vinse alcune importanti battaglie contro gli anglosassoni, tra cui la battaglia di Mons Badonicus.

    Altri autori ancora ci suggeriscono di identificarlo con Lucio Artorio Casto, un dux romano del II secolo i cui successi militari in Britannia sarebbero stati ricordati per i secoli successivi: ciò si collega a una teoria di C. Scott Littleton e Linda Malcor che ci suggerisce un Artù sarmato, teoria che ritroviamo alla base del film King Arthur: ma il buio e l'oblio che lo circondano rendono questa identificazione alquanto complicata, e sembrano esserci davvero poche motivazioni che potrebberlo averlo reso la figura leggendaria che tutti oggi conosciamo.

    Altre teorie meno diffuse comprendono quella che lo identifica con Owain Ddantgwyn ap Yrthr, re di Rhôs, e quella di John Darrah e Arthur Cummins, che ce lo propongono come un re dell'età del bronzo, circa 2300 a.C.. La loro argomentazione si basa sul fatto che estrarre una spada da una roccia potrebbe essere una metafora per il costruire una spada e forgiarla su un'incudine.

    Altre supposizioni si basano sul fatto che Artù fosse Artur Mac Aidan, un signore della guerra a capo di popolazioni scozzesi e Britons. Secondo questa teoria, Artù avrebbe svolto le sue azioni di guerra soprattutto nella regione tra i valli romani, il Gododdin; non sarebbe nemmeno mai stato un vero e proprio re, ma piuttosto il figlio di un re scozzese, il quale regnò a partire dal 574 circa. Come dichiara questo sito, Artù avrebbe comandato una coalizione dei celtici cristiani contro gli invasori pagani, riuscendo a tenerli lontani per un centinaio d'anni circa. Ad ogni modo, si hanno svariati omonimi nella sua generazione, o persone con nomi simili, e si può pensare che siano poi stati riuniti dalle credenze popolari e tramandati come se fossero un'unica entità.

    Lo storico John Morris fa il supposto regno di Artù al volgere del V secolo la nozione principale della sua storia della Britannia e dell'Irlanda sotto il regno romano nel suo testo del 1974 The Age of Arthur: A History of the British Isles from 350–650, pur avendo rare prove di un Artù storicamente esistito.

    Un'altra scuola di pensiero ritiene che Artù non avesse nessun collegamento storico credibile con personaggi realmente esistiti, spiegandoci che in origine sarebbe stato un dio semidimenticato per la religione dei Celti, poi modificato dalla tradizione orale in un personaggio realmente esistico, come sarebbe accaduto per la dea del mare Lir, divenuta re Lear o un personaggio totalmente fittizio, come quelli citati nel Beowulf.

    Ripetiamo, Artù potrebbe essere semplicemente un collage di tutte queste figure, mitologiche o realmente esistite: dobbiamo anche notare che nessuna di queste teorie ci dice che le parole artur, arturus e arcturos, che significano "uomo orso" in gaelico e latino e "orso" in greco antico e moderno avrebbero potuto essere un nome di guerra usato dal comandante che combattè i Sassoni, il sui vero nome è da considerarsi perduto, se non è stato uno dei sopracitati.


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    Antiche tradizioni

    Artù appare per la prima volta nella letteratura gaelica: in un antico poema in questa lingua, The Gododdin (circa 594), il poeta Aneirin (535-600) scrive di uno dei suoi sudditi che lui "nutriva i corvi neri sui baluardi, pur non essendo Artù". Ad ogni modo, questo poema è ricco di inserimenti posteriori e non è possibile sapere se questo passaggio sia parte della versione originale o meno. Possiamo però fare riferimento ad alcuni poemi di Taliesin, che sono presumibilmente dello stesso periodo: The Chair of the Sovereign, che ricorda un Artù ferito; Preiddeu Annwn ("I Tesori di Annwn"), cita "il valore di Artù" e afferma che "noi partimmo con Artù nei suoi splendidi labours"; poi il poema Viaggio a Deganwy, che contiene il passaggio "come alla battaglia di Badon con Artù, il capo che organizza banchetti/conviti, con le sue grandi lame rosse dalla battaglia che tutti gli uomini possono ricordare".

    Un'altra citazione è nell' Historia Brittonum, attribuita al monaco gallese Nennio, che forse scrisse questo compilation dell'antica storia del suo paese nell'anno 830 circa. Nuovamente, quest'opera ci descrive Artù come un "comandante di battaglie", piuttosto che come un re. Due fonti distinte all'interno di questo scritto ricordano almeno 12 battaglie in cui avrebbe combattuto, culminando con la battaglia di Mons Badonicus, dove si dice abbia ucciso, da solo/con una sola mano, addirittura 960 avversari. Secondo gli Annales Cambriae, Artù sarebbe stato ammazzato durante la battaglia di Camlan nel 537.

    Appare inoltre in numerose vitae di santi del VI secolo, ad esempio la vita di san Illtud, che alla lettura sembra essere scritta verso il 1140, dove si dice che Artù fosse un cugino di quell'uomo di chiesa. Molte di queste opere dipingono Artù come un fiero guerriero, e non necessariamente moralmente impeccabile come nei successivi romanzi. Secondo la Vita di santa Gildas (morta intorno all'anno 570), opera scritta nel XI secolo da Caradoc di Llancarfan, Artù uccise Hueil, fratello di Gildas, un pirata dell'isola di Man.

    Attorno al 1100, Lifris di Llancarfan nella sua Vita di san Cadoc che Artù è stato migliorato da Cadoc. Cadoc diede protezione ad un uomo che aveva ucciso tre dei soldati di Artù, che ricevè del bestiame da Cadoc come contropartita per i suoi uomini. Cadoc glielo portò come richiesto, ma quando Artù prese possesso degli animali, questi furono trasformati in felci. Il probabile scopo originale di questa storia sarebbe quello di promuovere l'accettazione popolare della nuova fede cristiana "dimostrando" che Cadoc aveva poteri magici attribuiti tradizionalmente ai druidi e così intensi da "battere" Artù. Avvenimenti simili sono descrittinelle tarde biografie medioevali di Carannog, di Padern e Goeznovius. Artù compare anche nel racconto in lingua gallese Culhwch e Olwen, solitamente associata con il Mabinogion: Culhwch visita la corte di Artù per cercare il suo aiuto per conquistare la mano di Olwen. Artù, che è definito suo parente, accosente alla richiesta e compie le richieste del padre di Olwen, il gigante Ysbaddaden (tra cui la caccia al grande cinghiale Twrch Trwyth.

    Le spade di Artù

    Main entry: Excalibur.

    Nel Merlin di Robert de Boron, successivamente ripreso e continuato da Thomas Malory, re Artù ottiene il trono estraendo una spada da una roccia. Nel racconto estrarre la spada è possibile solo a colui che è "il vero re", inteso come l'erede di Uther Pendragon. La spada del racconto è presumibilmente la famosa Excalibur; la sua identità viene infatti resa esplicità nel seguito chiamato Vulgate Merlin Continuation.

    Ciò nonostante, in quello che viene chiamato Post-Vulgate Merlin, Excalibur viene donata a re Artù dalla Dama del lago dopo che Artù è già re (Artù ottiene la spada prendendola dalla mano della Dama che esce fuori da un lago e gli porge l'Excalibur). Secondo diverse fonti Artù distrugge la spada estratta dalla roccia mentre sta combattendo contro re Pellinore, per questo Merlino permetterà ad Artù di ottenere la Excalibur dal lago (così come citato in diversi romanzi tra cui King Arthur and His Knights e King Arthur and the legend of Camelot di [Howard Pyle] e naturalmente molti romanzi moderni basati sulla saga arturiana).

    In questa versione la lama della spada è in grado di tagliare qualunque materiale e i suo fodero è in grado di rendere invincibile chiunque lo indossi. Alcune storie narrano che Artù sia riuscito ad estrarre la spada dalla roccia dandogli il diritto a diventare re (e quella spada era Excalibur) ma che l'abbia gettata via una volta che lui, tramite essa, uccise accidentalmente un suo cavaliere. Merlino allora gli consigliò di trovare una nuova lama, cosa che succede quando Artù riceve la spada dalla Dama del lago. Anche questa nuova spada verrà chiamata da Artù "Excalibur" così da avere lo stesso nome della originale e precedente spada.

    La spada appare la prima volta con il nome di Caliburn nel racconto di Geoffrey di Monmouth. L'autore afferma che nella battaglia contro Artù "nought might armour avail, but that Caliburn would carve their souls from out them with their blood."
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    00 29/05/2006 17:26
    bella idea!

    SIGFRIDO
    Nela Saga dei Volsunghi, Sigfrido è il figlio postumo di Sigmund e della sua seconda moglie Hjordis. Sigmund morì nella battaglia quando attaccò Odino e Odino frantumò la sua spada. Morendo Sigmund dice a Hjordis della sua gravidanza e lascia in eredità al figlio nascituro i frammenti della sua spada.

    Hjordis sposò Re Alf, e mandò Sigfrido da Regin affinché lo accogliesse come figlio adottivo. Regin tentò Sigfrido all'ingordigia e alla violenza chiedendo per prima cosa se aveva controllo del tesoro di Sigmund. Quando Sigfrido disse che era Alf e la sua famiglia ad avere il controllo dell'oro del padre e che gli avrebbero dato qualunque cosa desiderasse. Allora Regin gli chiese come mai non avesse una posizione altolocata a palazzo, Sigfrido rispose che lui era trattato come un re e poteva avere qualunque cosa desiderasse. Allora Regin gli chiese come mai si fingesse stalliere del re e non aveva un cavallo per sè. Sigfrido andò subito a prendersi un cavallo. Un vecchio uomo (sotto le cui spoglie si celava Odino) consigliò il ragazzo sulla scelta del cavallo e in questo modo Sigfrido scelse Grani. Un cavallo discendente dallo stesso Sleipnir di Odino

    Alla fine Regin tenta Sugfrido raccontandogli la storia dell'oro della Lontra. Il padre di Regin era Hreidmar, i suoi fratelli erano Fàfnir e Otr. Regin era un bravo fabbro e Otr era un bravo nuotatore. Otr era solito andare alla cascate di Andvari, dove il nano Andvari viveva. Andvari spesso assumeva la forma di un piccone e nuotava nell'acqua. Un giorno gli Asi vide Otr con un pesce sulla riva, credendo che fosse una Lontra, Loki lo uccise. Loro portarono la carcassa alla vicina casa di Hreidmar per mostrargli la preda. Hreidmar, Fafnir, e Regin chiesero allora agli Aesir una compensazione per la morte del fratello. La compensazione era di riempire il corpo del defunto con l'oro e di ricoprirgli pure la pelle.

    Loki riuscì ad ottenere una rete dalla gigantessa Ran, catturò Andvari, e chiese al Nano tutto il suo oro in cambio della sua libertà. Andvari si separò dall'oro, ma volle tenere per sé un anello. Loki pretese anche l'anello, sebbene sul gioiello gravasse una maledizione: portare alla morte il suo possessore. Gli Aesir imbottirono la pelle di Otr con il tesoro e ricoprirono d'oro la sua pelle. Hreidmar notò una piccola porzione di pelle rimasta scoperta,e pretese che anche questa fosse coperta da un monile d'oro. Gli Aesir la coprirono con l'anello di Andvari. La maledizione non tardò a manifestare i suoi effetti: Fafnir uccise il padre e cacciò di casa il fratello, tenedo per sé l'oro.

    Sigfrido accettò di uccidere Fafnir, che era diventato un drago fuori controllo. Sigfrido chiese a Regin di fargli una spada, che provò rompendo l'incudine. La spada di frantumò e così Regin dovette fargliene un'altra. Anche questa si ruppe. Infine, Sigfrido chiese a Regin di fargli una spada dai frammenti che gli erano stati lasciati da Sigmund. La spada ricavata Gramr, taglia anche l'incudine. Per uccidere Fafnir il drago, Regin lo consigliò di scavare una fossa, aspettare che Fafnir ci si posizioni sopra e quindi trafiggere il drago. Un vecchio uomo (sotto le cui spoglie si celava Odino), consigliò Sigfrido di scavare molte buche anche per far defluire il sangue e farci il bagno dopo aver ucciso il dragone; fare il bagno nel sangue di Fafnir conferisce l'invulnerabilità. Sigfrido fece così e uccise Fafnir, poi si immerse nel suo sangue, in modo che tutto il suo corpo si bagnasse eccetto una parte della sua spalla dove una foglia è caduta. Regin chiese a Sigfrido di dargli il cuore del drago. Lui, dopo aver assaggiato il sangue dell'ucciso acquistò il potere di comprendere il linguaggio degli uccelli. Gli uccelli lo consigliarono di uccidere Regin, poiché stava tramando l'uccisione dell'eroe. Sigfrido decapitò Regin, arrostì il cuore di Fafnir e ne mangiò una parte, questo gli diede la capacità della profezia.

    Sigfrido incontra Brunilde, (una valchiria) dopo aver ucciso Fafnir. Lei si lega a Sigfrido ma profetizza il suo destino di sposarsi con un altro.

    Sigurd andò alla corte di Heimar, che era sposato con Bekkhild, sorella di Brunilde, e poi alla corte di Gjuki, dove anndò a vivere. Gjuki ebbe tre figli e una figlia da sua moglie, Grimilde. I figli erano Gunnar, Hogi, e Guttorm, e la figlia era Gudrun. Grimilde fece una pozione per far dimenticare a Sigfrido Brunilde e lui poi sposò Gudrun. Tempo dopo Gunnar volle corteggiare Brunilde. Il salottino di Brunilde era circondato da fiamme e lei promise che si sarebbe unita soltanto a colui che azzardava così tanto da passarci in mezzo. Solo Grani, il cavallo di Sigfrido, l'avrebbe fatto e solo montato da Sigfrido. Sigfrido scambiò le forme con Gunnar, cavalcò oltre le fiamme e vinse Brunilde in cambio di Gunnar.

    Successivamente, Brunilde rinfacciò a Gudrun per avere un marito migliore, e Gudrun raccontò tutto ciò che era successo a Brunilde e spiegò l'inganno. Per essere stati illusi e ingannati del marito che aveva desiderato, Brunilde tramò vendetta. Prima di tutto, si rifiutò di parlare con chiunque e si allontanò. Infine, Sigfrido fu mandato da Gunnar per capire cosa ci fosse, e Brunilde lo accusò di prendersi libertà con lei. Gunnar e Hogi tramarono la morte di Sigfrido e ammaliarono il looro fratello, Guttorm, ad una pazzia per compiere il delitto. Guttorm uccise Sigfrido a letto, e Brunilde uccise il figlio di tre anni di Sigfrido. Brunilde poi desiderò uccidersi, e fu costruito un rogo funebre per Guttorm (ucciso da Sigfrido), Sigfrido, Brunilde, e il figlio di Sigfrido.

    Sigfrido e Brunilde avevano la figlia Aslaug che sposò Ragnar Lodbrok.


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    00 29/05/2006 20:00
    Enea
    Come si racconta nell'Eneide, Enea, figlio della dea Venere, fugge da Troia ormai presa dai Greci, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio, mentre la moglie Creusa, figlia del re Priamo, perisce nell'incendio della città. Dopo diverse peregrinazioni nel Mediterraneo, Enea arriva nel Lazio e viene favorevolmente accolto dal re Latino, che gli offre in sposa la figlia Lavinia. Alla mano della figlia del re ambiva anche Turno, re dei Rutuli e scoppia quindi una guerra a cui partecipano, da una parte o dall'altra, le varie popolazioni italiche, compresi gli Etruschi e i Volsci e la città di Pallante sul Palatino, regno dell'arcade Evandro. Sconfitto Turno in duello, Enea sposa Lavinia e fonda la città di Lavinio.
    La lupa capitolina
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    La lupa capitolina

    Dopo trent'anni Ascanio fonda una nuova città, Alba Longa, sulla quale regnano i suoi discendenti. Molto tempo dopo il figlio e legittimo erede del re Proca di Alba Longa, Numitore viene spodestato dal fratello Amulio, che costringe la figlia Rea Silvia a farsi vestale e a fare quindi voto di castità. Tuttavia il dio Marte si invaghisce della fanciulla e la rende madre di due gemelli, Romolo e Remo. Il re Amulio ne ordina l'uccisione, ma il servo incaricato di eseguire l'ordine non ne trova il coraggio e li abbandona alla corrente del fiume Tevere. La cesta dei gemelli si arena sulla riva presso la palude del Velabro, tra Palatino e Campidoglio dove vengono nutriti da una lupa. Li trova poi il pastore Faustolo che li porta con sé e la moglie Acca Larenzia e li cresce come suoi figli. Una volta divenuti adulti e conosciuta la propria origine ritornano ad Alba Longa, uccidono Amulio e rimettono sul trono il nonno Numitore.

    Romolo e Remo ottengono quindi il permesso di andare a fondare una nuova città, nel luogo dove sono cresciuti. Romolo dal Palatino e Remo dall'Aventino osservano il volo degli uccelli per decidere su quale colle dovrà essere fondata la nuova città. Secondo una versione il responso favorisce Romolo, che traccia il solco sacro (pomerio) che deve delimitare il perimetro della nuova città (Roma quadrata), solco che nessuno potrà oltrepassare. Il fratello Remo lo schernisce saltando il solco e Romolo lo uccide con la propria spada. Per un'altra versione Remo osservò per primo il volo di sei aquile, ma di li a poco Romolo ne vide volare dodici; ne nacque una disputa, che terminò con l'uccisione di Remo da parte del fratello.

    La città è fondata e Romolo diventa il primo dei re di Roma.

    La formazione del mito

    Nell'Iliade Enea durante il duello con Achille viene salvato dal dio Poseidone, che ne profetizza il futuro regale. Questo vaticinio e il fatto che non ne sia narrata la morte nelle vicende della caduta della città di Troia, permise la creazione delle leggende sulla sorte successiva dell'eroe.

    Nell'Ilioupersis di Arctino di Mileto, della metà dell'VIII secolo a.C., si racconta la sua partenza verso il monte Ida, mentre nell'Inno omerico ad Afrodite, della fine del VII secolo a.C., Enea viene visto regnare sulla nuova Troia ricostruita, al posto della stirpe di Priamo. Anche la città di Ainea nella penisola calcidica si riteneva fondata da Enea e una moneta cittadina dellla fine del VI secolo a.C. rappresenta la fuga dell'eroe da Troia. Con Stesicoro, nel VI secolo a.C., viene introdotto il viaggio di Enea verso l'Occidente. Il testo letterario non ci è giunto, ma ne rimane testimonianza nelle raffigurazioni con "didascalie" della Tabula Iliaca (rilievo proveniente da Boville nei Musei Capitolini di Roma, databile al I secolo d.C.).

    Nel V secolo a.C. i Greci crearono quindi probabilmente la leggenda della fondazione di Roma da parte di Enea: Dionigi di Alicarnasso ci riporta il racconto di Ellanico di Lesbo e di Damaste di Sigeo che avevano preso a modello le altre fondazioni di città greche attribuite agli eroi omerici. Viene anche inventata un eroina troiana che avrebbe dato il suo nome alla nuova città ("Rome"). La presenza di raffigurazioni del mito di Enea su oggeti rinvenuti in centri etruschi tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. ha fatto ipotizzare in alternativa che il mito si sia sviluppato in quest'epoca in Etruria.

    La relazione di Enea con Lavinio viene introdotta, alla fine del IV secolo a.C., da Timeo di Tauromenio, che, come testimoniato nuovamente da Dionigi di Alicarnasso, racconta di avervi visto con i suoi occhi i Penati troiani. Il legame con Lavinio è testimoniato anche dal poeta Licofrone. Si tratta forse di un mito di fondazione di origine latina o romana, attestato anche archeologicamente: un tumulo funerario, databile in origine al VII secolo a.C., mostra un adeguamento a funzioni di culto proprio alla fine del IV secolo a.C. e corrisponde ad una descrizione di Dionigi di Alicarnasso del cenotafio dell'eroe, costruito nel luogo in cui era scomparso (rapito in cielo) nel corso di una battaglia.

    Tra il IV e il III secolo a.C. dopo una lunga elaborazione di molteplici materiali tradizionali, tra cui ebbe forse particolare peso quello di origine gentilizia (le "storie di famiglia" del patriziato), viene redatto il racconto della fondazione della città da parte di Romolo e Remo. Questa redazione e la selezione dei materiali della tradizione, fino a quel momento probabilmente trasmessi essenzialmente per via orale, dipende fortemente dal contesto contemporaneo: Roma deve poter essere accolta nel mondo culturale greco, minimizzando invece l'apporto etrusco. La storia arcaica di Roma, a partire dalla sua fondazione viene quindi riferita da Fabio Pittore (che scrive in greco) e sarà ripetuta nelle Origines di Catone, negli scritti di Calpurnio Pisone e negli Annales di Ennio.

    La leggenda di Enea fondatore di Lavinio viene fusa da Eratostene di Cirene con quella di Romolo e Remo: a lui si deve l'invenzione della dinastia regale di Alba Longa, a coprire lo scarto cronologico tra la data della caduta di Troia, agli inizi del XII secolo a.C., e la tradizionale data di fondazione della città, alla metà del VIII secolo a.C.. Secondo Ennio, Romolo e Remo sono invece figli della figlia di Enea, di nome Ilia. Saranno infine Catone il Censore, Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Appiano e Cassio Dione a narrare la leggenda così come è conosciuta dell'Eneide di Virgilio. Questi aggiunge tuttavia alle peregrinazioni dell'eroe la sosta presso la regina Didone, che rappresenta la spiegazione mitica dell'ostilità tra Roma e Cartagine.


    Altro materiale mitico e leggendario

    A Roma, o meglio nel luogo in cui più tardi questa sarà fondata, si colloca anche il regno di Evandro, citato nell'Eneide virgiliana. Evandro avrebbe dato ospitalità ad Ercole che conduceva le mandrie rubate a Gerione per una delle sue dodici fatiche: durante il suo soggiorno tuttavia le mandrie gli furono rubate da Caco, figlio di Tifone, che egli precipitò dalla rupe del Palatino.

    L'origine del nome della città era incerta anche in antico: già Plutarco ci offre una serie di ipotesi alternative, dalla parola Rhome con il significato di "forza", al nome di una delle troiane che accompagnavano Enea, oppure mitico personaggio eponimo, figlia di Italo, mitico re degli Enotri o di Telefo, figlio di Eracle.

    Le fonti citano anche altri possibili eroi eponimi, come Romano, figlio di Odisseo e di Circe, o Romo, figlio del trioiano Emasione, o ancora a Rhomis, signore dei Latini e vincitore degli Etruschi.

    Altre varianti riguardano gli stessi Romolo e Remo, figli di Enea e Dessitea, nati già a Troia, oppure di Latino, figlio di Telemaco e di Rhome, o ancora di una Emilia, figlia di Enea, e del dio Marte.
    Una leggenda racconta infine una diversa versione: sul focolare della casa di Tarchezio, tirannico re di Alba Longa, era apparso un fallo, che un oracolo impose di far unire con una fanciulla vergine. La figlia del re si fece tuttavia sostituire da una schiava, ma venne scoperta dal padre: le due donne furono imprigionate e i gemelli nati da quell'unione furono esposti in una cesta lasciata nel Tevere.

    Anche la figura di Acca Larenzia compare in un diverso racconto che ci ha tramandato Plutarco: il guardiano del tempio di Ercole aveva perso una partita a dadi che aveva giocato contro il dio stesso e la cui posta era una donna. Il guardiano invitò dunque Acca Larenzia nel tempio e ve la richiuse. Dopo aver passato la notte con lei Ercole favorì le sue nozze con il ricco Tarunzio, che alla sua morte la lasciò erede delle sue ricchezze: Acca Larenzia le donò quindi al popolo romano. L'episodio spiega in tal modo il culto che le veniva dedicato (festa dei Larentalia), e che forse è dovuto all'antico carattere divino di questa figura.

    Secondo Plinio il Vecchio e Aulo Gellio i dodici figli di Acca Larenzia e di Faustolo sarebbero stati all'origine del collegio sacerdotale dei fratres Arvales caratterizzato dall'uso di rituali e formulari nettamente arcaici.


    I dati storici e archeologici

    I reperti più antichi ritrovati nel nucleo primitivo di Roma, sono quelli ritrovati vicino alla chiesa di Sant'Omobono, sotto al colle del Campidoglio; si tratta di frammenti di ceramica, databili intorno al XIV secolo a.C. e di ossa di animali. Nell'area del foro romano, quindi sempre nelle vicinanze del Campidoglio, sono stati ritrovati resti di insediamenti risalenti all'XI secolo a.C. e corredi funerari risalenti all X secolo a.C.. Resti di una necropoli, che si fanno risalire sempre al X secolo a.C., sono poi stati ritrovati sul colle Palatino, nella sella compresa tra le due cime del colle, il Germalo e il Palatino, e sempre sul Palatino sono stati ritrovati resti di insediamenti che si riferiscono al IX secolo a.C.. Diverse teorie cercano di collegare questi ritrovamenti; sta di fatto che si tratta di ritrovamenti in un'area molto ristretta e che attestano la presenza di abitati nella zona del Campidolgio, Foro, Palatino in età un'età antecedente a quella che la tradizione tramanda come data di fondazione della città.


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    00 29/05/2006 20:04
    ETTORE
    Ettore è una figura della mitologia greca, era il figlio primogenito di Priamo e di Ecuba.

    Ettore sposò Andromaca, che diede alla luce il figlio Astianatte.
    Quest'ultimo ancora bambino fu ucciso da Neottolemo ( figlio di Achille), che lo scagliò dagli spalti durante la conquista di Troia.

    Ettore in lingua greca significa "supporto" o "sostegno", tanto da far pensare che la sua figura fosse completamente frutto della fantasia di Omero.
    Il principe troiano è un uomo di cuore, compassionevole e valoroso, ma anche in grado di onorare i nemici.
    Nell'Iliade ci viene mostrato anche come marito e padre affettuoso.
    Ettore non interviene in nessun'altra leggenda, che si chiude con i suoi funerali, al termine delle vicende trattate nell'Iliade circa la guerra di Troia.

    Appare per la prima volta nel libro II alla testa dell'esercito troiano, ed avrà una parte preponderante negli avvenimenti fino al tragico duello con Achille (libro XXII) che porrà fine alla sua vita.
    Famoso il suo addio alla moglie e al figlio nel libro VI.
    Ettore era protetto da Zeus ed il destino di questo guerriero impressionò notevolmente i greci, tanto da consacrarne un culto in molte città, come a Troia e a Tebe.
    La tradizione narra che le sue ossa siano state trasferite nella rocca tebana per ordine di un oracolo.
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    00 30/05/2006 20:59
    ERCOLE
    Ercole è una figura della mitologia romana, forma latina del culto dell'eroe greco Eracle.

    Il culto di Ercole arrivò fino a Roma portato dai coloni greci che si insediarono in Sicilia e in Magna Grecia.

    La presenza di Ercole nell'Eneide (libro VIII) è dovuto più alla fantasia di Virgilio e non ad una base mitologica.

    Non è escluso che i romani abbiano conservato nelle loro tradizioni popolari il ricordo di un eroe che possedeva una forza sovrumana.

    Ercole nella antica religione romana

    Ercole e' noto in particolare per le "dodici fatiche": queste indicano come il mito derivasse direttamente da qualche precedente culto solare. Le sue dodici fatiche simboleggiano il passaggio del Sole attraverso le 12 case dello zodiaco.

    Numerose sono le leggende religiose che hanno Ercole come protagonista. Figlio di Zeus, la madre di Ercole era la fanciulla Alcmena, che rimase vergine anche dopo il concepimento.

    Deceduto nel solstizio di primavera, mentre moriva il sole si oscuro'.

    Subito dopo la morte sarebbe disceso nell'Ade , e poi resuscitato dal padre Zeus. Successivamente ascense all'Olimpo degli Dei, diventanto da uomo, dio.

    Come per il dio sole, la sua nascita era celebrata il 25 dicembre.

    Le 12 Fatiche Di Ercole


    I - Leone di Nemea

    Il leone di Nemea era un animale gigantesco, figlio di Artemide, la dea della luna. Alla sua nascita, la madre rimase inorridita e lo gettò sulla terra, dove cadde vicino a Nemea, nell'Argolide. Si insediò in una grotta con due uscite.
    Gli abitanti della regione dimenticarono di offrire un sacrificio a Selene, che mise in libertà il leone: questi devastò il paese, divorandone gli abitanti.
    Non c'erano armi che potessero ferirlo.
    Eracle fu mandato ad ucciderlo ed egli bloccò un'uscita della grotta. Entrato dall'altro ingresso, gli si gettò addosso, colpendolo con la clava e lo finì strozzandolo.
    Eracle gli tolse la pelle, utilizzando un artiglio dello stesso leone, e la portò al re Euristeo.



    II - Idra di Lerna


    L'idra di Lerna fu allevata da Era, nella speranza che riuscisse a liberarla da Eracle.
    Lerna si trovava vicino al mare, a circa 8 km da Argo. L'idra viveva in un bosco nei pressi della sorgente del fiume Amimone e frequentava le paludi vicine.
    Per aiutarlo nell'impresa, Eracle chiamò Iolao. Tentò di far uscire il mostro dalla tana lanciando all'interno delle frecce infuocate ma Era intervenne, mandando un granchio enorme a ferire il tallone di Eracle. Eracle lo schiacciò, uccidendolo.
    L'idra emerse allora dalla palude, gettandosi sull'eroe: dalle bocche delle sue nove teste usciva un alito pestilenziale. Eracle tagliò le teste, una dopo l'altra, ma ad ogni testa tagliata ne nascevano altre due.
    Per evitare che le teste ricrescessero, Iolao consumò quasi tutto il bosco, utilizzando dei tizzoni ardenti per bruciare le ferite provocate da Eracle.
    I due eroi riuscirono a disfarsi di otto teste: ne rimaneva una sola, quella centrale e immortale. Eracle la recise e la seppellì a grande profondità.
    Prima di lasciare Lerna, Eracle immerse la punta delle sue frecce nel sangue dell'idra, che conteneva un potente veleno, rendendole micidiali.



    III - Cinghiale di Erimanto


    Nella terza fatica Eracle doveva catturare vivo il mostruoso cinghiale che viveva sulle pendici del monte Erimanto, in Arcadia.
    Il cinghiale terrorizzava gli abitanti della regione e l'eroe fu mandato ad aiutarli.
    Eracle spinse il cinghiale verso la cima del monte, sulla neve alta: l'animale non riusciva più a correre e quindi Eracle gli saltò in groppa, incatenandogli le zampe. Lo prese quindi in spalla e lo portò ad Argo per mostrarlo a Euristeo.
    Quando il re lo vide, fu preso da grande paura ed andò a rifugiarsi in una giara di bronzo, da cui non uscì finché Eracle non l'ebbe portato via.


    IV - Cerva di Cerinea

    La cerva era una delle cinque che Artemide aveva scoperto in Tessaglia: la dea ne catturò quattro, mettendole a tirare il suo carro, ma la quinta le sfuggì, andando a rifugiarsi a Cerinea.
    La cerva aveva gli zoccoli in bronzo e le corna d'oro. Era un animale consacrato ad Artemide, per cui ad Eracle fu ordinato di portarla ad Argo viva.
    L'eroe inseguì la cerva fino a renderla esausta e, quando si abbatté al suolo, la catturò. La prese sulle spalle e si diresse verso Argo. Lungo il percorso incontrò Artemide, che furente gli chiese cosa facesse con la cerva. Eracle la informò che stava eseguendo gli ordini di Euristeo, al che la dea lo lascio andare, purché Eracle la liberasse non appena avesse dimostrato il successo della sua prova.

    V - Uccelli del lago Stinfalo

    Nei boschi attorno al lago Stinfalo abitavano uccelli voraci e chiassosi, che devastavano i campi e tormentavano gli abitanti.
    Eracle ebbe il compito di liberare la regione da questo flagello e vi riuscì con l'aiuto di Atena. La dea diede all'eroe delle nacchere di bronzo.
    Eracle si appostò sul monte Cilleno e suonò le nacchere. Il rumore sconosciuto, spaventò gli uccelli che si alzarono in volo terrorizzati. Eracle riprese a suonare e gli uccelli fuggirono in tutte le direzioni, talmente spaventati da scontrarsi fra loro. L'eroe continuò a suonare, finché anche l'ultimo uccello scomparve all'orizzonte.

    VI - Stalle di Augia

    Augia, re dell'Elide, possedeva numerosissimi armenti, ricevuti in dono dal padre, Elio.
    Vista l'origine divina, il bestiame era immune da ogni malattia ed era cresciuto in numero a dismisura. Il re non si era mai preoccupato di pulire le stalle ed ora il letame si accumulava nei dintorni, impestando l'ambiente, mentre nugoli di mosche oscuravano il cielo. Euristeo ordinò ad Eracle di ripulire le stalle in un solo giorno.
    Eracle distrusse le pareti dell'edificio, deviò il fiume Alfeo, facendovi defluire le acque, che ripulirono le stalle.

    VII - Toro di Creta

    A Creta un toro enorme errava in libertà, terrorizzando gli abitanti e devastando i raccolti, Eracle fu mandato a porvi rimedio.
    In certe versioni, il toro è identificato in quello che Poseidone fece apparire a Creta e che generò il Minotauro.
    Minosse gli offrì il suo aiuto, ma Eracle catturò il toro da solo. Gli fece attraversare il mare, portandolo ad Argo.
    Euristeo, come per il cinghiale di Erimanto, provò terrore e consacrò l'animale ad Era ma la dea non ne fu soddisfatta, sapendo da chi era stato catturato. Fece uscire l'animale da Argo, facendogli attraversare l'istmo di Corinto, arrivando a Maratona, dove Teseo gli diede nuovamente la caccia.

    VIII - Cavalle di Diomede

    Diomede, re della Tracia, possedeva delle cavalle che nutriva con carne umana, generalmente quella dei viandanti che cadevano in suo potere.
    Eracle ricevette l'ordine di portare le cavalle ad Argo.
    Eracle andò alle scuderie ed immobilizzò i palafrenieri, attaccò le cavalle ad una unica cavezza, portandole tutte e quattro fuori dalla scuderia.
    Ma le cavalle scalciavano e nitrivano, il rumore svegliò Diomede, che giunse con le sue guardie. Il re si gettò addosso all'eroe, che lasciò per un attimo le cavalle per abbatterlo. Gli animali, vedendo il padrone a terra, lo divorarono.
    Quindi si placarono e seguirono docilmente Eracle fino ad Argo.

    IX - Cinto della regina delle amazzoni

    La richiesta di Euristeo di recuperare il cinto delle amazzoni ha almeno tre versioni.
    Nella prima, la regina delle amazzoni si innamorò di Eracle e gli offrì il cinto volontariamente, a significare che lei donna forte si concedeva a un uomo eccellente. Un'altra versione, indica Antiope come regina delle amazzoni, mentre in una terza la regina si chiama Melanippe.
    Ma, qualunque sia la versione, Eracle non ha difficoltà ad impossessarsi del cinto e a portarlo al re di Argo.

    X - Buoi di Gerione

    I buoi di Gerione facevano invidia a tutti, grazie al loro colore rosso scarlatto, e, tra gli altri, anche a Euristeo, che ordinò ad Eracle di portarglieli.
    Eracle si diresse verso i confini occidentali della terra, attraversando il mare su una coppa datagli da Elio, il dio del sole.
    Giunto allo stretto di Gibilterra, che separa il Mediterraneo dall'Oceano Atlantico, eresse le colonne che portano il suo nome e che sono state identificate con le montagne che si ergono da una parte e dall'altra dello stretto.
    Appena messo piede sul regno di Gerione, uccise il suo guardiano degli armenti, Euritione, quindi il suo mostruoso cane a due teste, Ortro, ed infine abbatté lo stesso Gerione. Era tentò di venire in aiuto di Gerione, ma fu costretta alla fuga, quando fu raggiunta da una freccia scoccata da Eracle.
    L'eroe ammucchiò i tori sulla coppa e si diresse verso l'Argolide, utilizzando la sua pelle di leone come vela. Una volta arrivato, restituì la coppa al dio e diede i tori al re.

    XI - Cane Cerbero

    Come penultima fatica, Euristeo, forse per liberarsi dell'eroe, mandò Eracle nel mondo degli inferi per rubare il cane Cerbero, che ne custodiva l'accesso.
    Ermes guidò Eracle nel regno di Ade, mentre Atena gli rimase vicino per rassicurarlo.
    Giunto allo Stige, chiese a Caronte di traghettarlo dall'altra parte del fiume. Messo piede sulla riva, l'eroe vide un'ombra avvicinarsi. Era già pronto a scoccare una freccia, ma fu fermato da Ermes, che lo dissuase dicendo che non aveva niente da temere dai morti.
    L'ombra era quella di Meleagro, la cui triste storia commosse Eracle, che gli promise di sposare la sorella Deianira.
    Alla fine incontrò lo stesso Ade, che non voleva farlo passare. I due cominciarono a battersi ed Eracle sconfisse il dio, che cadde a terra alle soglie del suo regno. Ade autorizzò Eracle ad impadronirsi di Cerbero, purché utilizzasse solamente le mani.
    Eracle afferrò il cane per il collo e lo strinse, fino a costringerlo alla resa. L'animale cercò ancora di colpirlo con la coda, che terminava con un dardo, ma visto che Eracle non mollava la presa, si lasciò incatenare.
    Atena era pronta a riportare l'eroe al di là dello Stige, si mise lei stessa ai remi.
    Euristeo rimase profondamente impressionato dal ritorno dell'eroe ed impaurito dal mostro terrificante a tre teste, andando a rifugiarsi nel suo "nascondiglio preferito": la giara di bronzo.



    XII - Pomi d'oro del giardino delle Esperidi

    Come ultima fatica, Euristeo ordinò ad Eracle di portargli i pomi d'oro del giardino delle Esperidi.
    La localizzazione del giardino non era nota a nessun umano, si sapeva solo che era posto nelle lontane regioni occidentali.
    Il primo compito di Eracle fu quello di scoprire dove il giardino si trovava. Chiese al vecchio dio del mare Nereo di indicarglielo, ma si rifiutò, sostenendo che non poteva dirlo ad un semplice mortale. Eracle lo afferrò, dichiarando che non l'avrebbe lasciato fino a che non avesse ottenuto quello che voleva.
    Nereo cedette e gli disse di recarsi da Atlante, chiedendo a lui stesso di prendere i pomi d'oro. L'eroe si diresse da Atlante; arrivato da lui, gli chiese di prendere i pomi d'oro, ma Atlante replicò che aveva paura del drago e che quindi prima doveva ucciderlo.
    Eracle, benché convinto che questa azione gli avrebbe causato il rancore di Era, prese l'arco e, con una freccia, uccise il drago.
    Atlante volle che Eracle si prendesse carico del cielo, mentre lui andava a raccogliere le mele.
    Quindi ritornò con tre pomi d'oro, ma non era disposto a riprendersi il carico del cielo sulle spalle. Preferiva essere lui a portare le mele ad Argo, mentre Eracle continuava a sostituirlo.
    La proposta non convinse l'eroe, sapeva benissimo che una volta partito, Atlante non sarebbe più tornato. Chiese ad Atlante di sorreggere momentaneamente il cielo, per permettergli di sistemarsi la pelle di leone che lo ricopriva, e con questa scusa, rimise il cielo sulle spalle di Atlante. Eracle raccolse le mele e fuggì rapidamente.
    Diede i frutti a Euristeo, ma questi non li volle e li rese ad Eracle. L'eroe li diede ad Atena, che li rimise nel giardino.
    Ma questo non bastò ad Era, che non volle perdonare: Eracle aveva spogliato il giardino e ucciso il suo drago. Alcune versioni della leggenda di Eracle, indicano in questo furto, il furore di Era, che fece portare Eracle alla pazzia e all'uccisione dei suoi due figli e dei suoi due nipoti.




    ..Iron Maiden wants you for dead

    ..With the glimmer of metal
    My moment is ready to strike.


    .

    [Modificato da (thecrippler) 30/05/2006 21.06]

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    00 30/05/2006 21:03
    GIASONE

    Giasone è una figura della mitologia greca conosciuto anche nella mitologia etrusca con il nome di Easun, era figlio di Esone re di Iolco antica città della Magnesia.
    Giasone è il mitico eroe conquistatore del vello d'oro, tramandatoci da Apollonio Rodio, anche se la sua storia è molto più antica, tanto da essere citata anche nell'Odissea di Omero.
    La nascita e l'infanzia


    Pelia, fratellastro di Esone, gli usurpò il trono, con l'intenzione di uccidere tutti i rappresentanti della casa reale: un oracolo gli aveva predetto che sarebbe morto per mano di un discendente di Eolo, fondatore del regno.
    Ma Pelia cedette alle suppliche della madre Alcimede e risparmiò Esone, imprigionandolo. La madre nascose il piccolo Giasone, affidandolo alle cure del centauro Chirone.
    Giasone divenne adulto, mentre Pelia regnava sicuro, finché un oracolo gli predisse di guardarsi dall'uomo che calzava un solo sandalo.


    Il ritorno a Iolco

    Proprio in quel tempo, Giasone tornava a Iolco per riconquistare il suo trono. Il fiume Anauro era in piena e lui doveva attraversarlo, sulla riva c'era una vecchia che gli chiese di aiutarla ad attraversare. Giasone acconsentì, ma nell'attraversare il corso d'acqua, perse un sandalo. La vecchia celava in realtà Era, la dea protettrice di Giasone.
    Pelia lo vide arrivare e riconobbe in lui il nemico preannunciato dall'oracolo. Giasone rivendicò il suo trono, ma Pelia lo mandò alla ricerca del vello d'oro.
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    Le Argonautiche


    Partenza

    Giasone raggruppa attorno a se un manipolo di uomini, gli Argonauti e parte con la nave " Argo" per la Colchide, alla ricerca del vello d'oro.
    Il vello è la pelle di un montone alato, grazie al quale Frisso era riuscito a sfuggire alla morte. Il vello si trovava in un bosco consacrato ad Ares, appeso ad una quercia, ed era custodito da un drago mostruoso.


    Isola di Lemno

    La nave parte verso l'isola di Lemno, sospinta da un vento favorevole.
    Quando gli Argonauti arrivano all'isola, le donne si armano, temendo un'invasione di traci. Ma una volta sentito l'araldo di Giasone, si mostrano ospitali accogliendoli tutti nell'isola, tranne Eracle e pochi altri. Il loro soggiorno è talmente felice da far dimenticare loro il motivo del loro viaggio ed Eracle li deve richiamare alla ragione; alla fine le donne di Lemno, acconsentono alla loro partenza.


    Cizico

    Gli argonauti attraversano senza fatica l'Ellesponto e il Propontide (il Mar di Marmara), approdando nel paese dei dolioni, nell'isola di Cizico.
    Il re li accoglie e li invita a gettare l'ancora nel porto di Cito.
    Cizico si è appena sposato ed è preoccupato da una profezia che gli indica di non usare mai la violenza nei confronti di nobili navigatori che approdassero alla sua isola.
    Li accoglie quindi con benevolenza, organizzando per loro un banchetto. Risponde a tutte le loro domande sul Propontide, ma confessa di non sapere niente sui paesi che si estendo ad est, al di la' del mare.
    Mentre si preparano per la partenza, dalle montagne scendono dei mostri con sei braccia, che attaccano la nave e che cercano di impedirne la partenza, accatastando grandi rocce all'imbocco del porto.
    Gli Argonauti sconfiggono i mostri e ben presto possono ripartire. Venti contrari impediscono di proseguire e così gli Argonauti sono costretti a tornare all'isola, sbarcandovi di notte.
    Re Cizico crede di essere stato attaccato da pirati e non riconoscendo gli ospiti del giorno prima, prende le armi e alla testa dei suoi soldati attacca gli invasori, rimanendo ucciso nel corso della battaglia, compiendo la profezia dell'oracolo.


    Ritorno in Tracia

    Gli argonauti rimangono nell'isola per dodici giorni, facendo celebrare con solennità le esequie del re e attendendo venti favorevoli.
    Mopso vede un martin pescatore svolazzare intorno alla nave, l'uccello rimane per pochi istanti sulla testa di Giasone e quindi si posa a prua. Mopso, che ne capisce il linguaggio, ascolta il cinguettio dell'uccello.
    Mopso racconta a Giasone che occorre un sacrificio per la dea Rea, madre di Zeus e sovrana della terra, dei venti e dei mari.
    Gli argonauti ritornano in Tracia, dove si trova il monte Didimo, con il santuario consacrato alla dea. Salendo verso il tempio, Argo scorge un tralcio di vite secco e lo utilizza per fare una statua della dea.
    Il sacrificio viene effettuato e la statua deposta nel santuario: Rea dimostra la sua soddisfazione facendo sgorgare una fonte dal fianco della montagna, a cui verra' dato il nome di "fonte di Giasone".


    Boschi di Pagea

    Tornati a Cizico, i venti sono cambiati e possono riprendere il viaggio immediatamente.
    Arrivati alla foce del Rindaco, il remo di Eracle si spezza, che scende a terra per cercare un albero con cui farne uno nuovo, mentre il suo scudiero Ila, va alla ricerca di una sorgente di acqua dolce.
    Entrambi trovano quello che cercano: Eracle un pino e Ila una fonte nei boschi di Pegea.
    La ninfa della fonte trova io giovane molto bello, quanto Ila si china per raccogliere l'acqua, la ninfa lo trascina nel suo regno.
    Il giorno successivo si alza una brezza e Tifi, pilota della nave, sollecita i compagna ad imbarcarsi.


    Abbandono di Eracle

    La nave è già in alto mare, quando il gruppo si accorge della mancanza a bordo di Eracle e Ila. Telamone accusa Giasone e Tifi di aver abbandonato volontariamente i due, per gelosia nei confronti di Eracle.
    Glauco, portavoce di Poseidone, esce dai flutti e annuncia che Eracle sarebbe rimasto a terra alla ricerca di Ila e che quindi la nave poteva continuare sulla sua rotta.


    Bitinia

    L'Argo arriva nel paese dei berici in Bitinia .
    Polluce entra in contesa con il re Amico e l'uccide, ne segue una battaglia tra gli argonauti e i berici che, sconfitti, fuggono.
    Gli argonauti si impadroniscono del bottino ed ascoltano Orfeo cantare le lodi di Polluce.
    Il giorno successivo si inoltrano nel Bosforo, attraversandolo senza problemi grazie all'abilità di Tifi.
    Fanno scalo nel regno di Fineo, il re cieco che regna sulla riva occidentale del Bosforo.
    Fineo ha il dono della profezia, ma ha avuto l'impudenza di rivelare i segreti degli dei e Zeus l'ha punito.
    Ogni volta che si appresta a mangiare, due Arpie si precipitano sul cibo, glielo strappano di mano, insudiciandolo: il re sta così morendo di fame.
    Fineo spiega agli argonauti che potrà essere liberato da questa maledizione dai figli del vento di settentrione e chiede aiuto a Zete e Calais. I figli di Borea cacciano le Arpie, permettendo al re di nutrirsi.
    L'indovino svela loro i pericoli che li minacciano e li consiglia di portarsi dietro una colomba, per poter attraversare le Simplegadi, scogli tra i quali le navi vanno a sfracellarsi.
    Seguendo il volo della colomba, la nave riesce a superare gli scogli, grazie anche all'abilità di Tifi e alla vigilanza di Atena.


    Nel Mar Nero

    L'Argo prosegue nel Mar Nero, lungo la rotta indicata da Fineo, arrivando all'isola di Tinia.
    Qui incontrano il dio Apollo in viaggio nel paese degli iperborei. Gli argonauti gli costruiscono un tempio ed Orfeo canta un inno in suo onore.
    Riprendono quindi il viaggio, arrivando al paese dei mariandini, dove li accoglie il re Lico. Il re ringrazia gli argonauti, che lo hanno liberato dalle continue irruzioni nel suo paese da parte di Amico.
    La felicità di questi momenti è offuscata dalla morte improvvisa di due argonauti: Idmone, ucciso da un cinghiale, e Tifi, colpito da una malattia fulminante.
    Anceo, sostituisce Tifi al timone, e l'Argo riparte alla volta di Sinope, dove si uniranno a loro tre nuovi compagni: i tre figli di Deimaco, che avevano preso parte alla spedizione di Eracle con le amazzoni ma che non furono in grado di tornare con lui.


    Aria, l'isola di Ares

    Proseguendo il viaggio arrivano ad Aria, l'isola di Ares, dove gli avvoltoi, gli uccelli del dio con le piume di bronzo, assalgono gli argonauti.
    Usciti da questa avventura, hanno appena il tempo di piantare le tende, che si scatena una violenta tempesta. Quattro naufraghi vengono gettati dalle onde sulla spiaggia e vengono subito soccorsi da Giasone e dai suoi amici: sono Argo, Frontide, Melante e Citissoro (figli di Frisso e Calciope).
    Essi stavano tornando a Orcomeno, patria del loro padre, appena morto. I quattro, seppure esitanti, decidono di unirsi al gruppo e di affrontare Eete .


    Arrivati in Colchide

    Due giorni dopo raggiungono la Colchide, chiudono le vele e al crepuscolo risalgono a remi il fiume Fasi: a destra si estende il bosco sacro di Ares, mentre a sinistra si trova la città di Eea e i monti del Caucaso.
    Su consiglio di Argo, la nave viene ancorata fra le canne di una palude. Atena ed Era che hanno seguito tutte le fasi del viaggio, si concertano per trovare il modo di aiutare Giasone. Chiedono consiglio anche ad Afrodite, che invia Eros ad ispirare amore per Giasone in Medea, figlia del re Eete.
    Giasone decide di presentarsi ad Eete, chiedendogli di consegnarli il vello d'oro, lo accompagnano Frisso, Telamone e Augia.


    Accoglienza di Eete

    Gli argonauti vengono accolti dal re Eete, da sua moglie Idia e dai figli Apsirto e Calciope. Calciope corre incontro ai figli, piena di gioia nel vederli tornare.
    A loro si unisce, in un secondo momento, la figlia minore del re, Medea. Appena vede Giasone, infiammata da Eros, se ne innamora.
    Come portavoce è stato scelto Argo, figlio di Frisso, che spiega ad Eete la richiesta e le ragioni di Giasone.
    Poiché la spedizione è stata ordinata da un oracolo, in cambio del vello d'oro, Giasone conquisterà per Eete, le terre dei sarmati, i suoi bellicosi vicini.
    Il re si infuria, li insulta in quanto abusano della sua ospitalità: loro non voglio altro che il suo regno.
    Giasone lo rassicura, dicendo che È sua volontà, come gli ha appena detto, di ingrandirglielo. Eete quindi decide di mettere alla prova Giasone.


    Eete mette alla prova Giasone

    Nella piana di Ares, ci sono due tori mostruosi, con zoccoli di bronzo e che sbuffano fuoco dalle narici: Giasone dovra' aggiogarli ed attaccarli ad un aratro. Fatto questo dovra' arare un campo e seminarvi dei denti di drago. Da questi semi nasceranno degli uomini armati, che dovra' uccidere prima che si faccia notte.
    Giasone accetta e Medea si ritira, tremando di paura al pensiero della dura prova che il suo amato dovra' affrontare.
    Giasone ritorna sulla nave ed informa i suoi compagni della prova, Argo (figlio di Frisso) lo informa che in suo aiuto potrebbe venire Medea, sacerdotessa di Ecate.
    Argo ritorna al palazzo, Medea gli rivela che un sogno l'ha avvertita che il padre non ha intenzione di mantenere la parola; Argo va dalla madre, che temendo per la vita dei figli, va da Medea e la trova disposta ad aiutare Giasone.


    Il tradimento di Eete

    Medea si dirige al santuario di Ecate, Giasone, accompagnato da Mopso, si fa condurre al tempio da Argo.
    Nella pianura avanza da solo incontra a Medea, anch'essa sola, la giovane suggerisce a Giasone il sacrificio da offrire alla dea Ecate nella notte, gli consegna anche un balsamo da spalmarsi sul corpo prima di affrontare i tori che sbuffano fuoco, infine gli chiede di non dimenticarsi di le quando lascerà la Colchide.
    Giasone le risponde che non la dimenticherà mai e che, se lei si unirà agli argonauti alla loro partenza, lui la sposerà. L'indomani Giasone supera la prova. Il re Eete è testimone del suo trionfo.
    L'amarezza gli riempie il cuore e decide di far massacrare gli argonauti con il favore della notte.


    Medea aiuta Giasone

    Medea si rende conto dell'impossibilità di rimanere nella Colchide ed esce dal palazzo correndo al porto. Rivela agli Argonauti che il re Eete ha scoperto tutto e che se Giasone terrà fede alla promessa sarà lei ad andare a prendere il vello d'oro. Giasone rinnova il giuramento e Medea lo conduce al bosco sacro di Ares .
    L'altare È posto ai piedi di una quercia sacra sulla quale pende il vello d'oro. Al loro avvicinarsi il drago si lanciò su di essi; Medea invoca il Dio del sonno e la luna vagabonda, così il drago, vinto dai suoi sortilegi, si addormenta.
    Giasone si impossessa del vello d'oro mentre Medea spalma sulla testa del drago un unguento che ne prolungherà il sonno, quindi tutti e due fuggono verso l'Argo.


    Gli Argonauti lasciano la Colchide

    Gli argonauti issano le vele, armati e pronti a fronteggiare i prossimi pericoli. Era manda una brezza favorevole, che li fa ridiscendere verso il mare, con Giasone e Medea accanto al timoniere.
    Al palazzo viene notata l'assenza di Medea, Eete raduna il suo esercito e sale sul suo carro, guidato dal figlio Apsirto, precipitandosi verso la riva per impedire che la nave prenda il largo.
    La nave è ormai lontana ed il re ordina a tutte le imbarcazioni del suo regno, che si lancino all'inseguimento della nave sulla quale si trova la figlia infedele.
    L'indovino Fideo consiglia agli Argonauti di seguire una rotta diversa per tornare in Grecia.
    Argo propone di seguire il fiume Istro (odierno Danubio) e poi, attraverso i suoi affluenti, arrivare al Mar Ionio ed effettuare il periplo della Grecia per arrivare ad Iolco.


    Apsirto impedisce la fuga a Giasone

    Giunti alla foce si accorgono che il fratello di Medea, Apsirto, li ha preceduti, impedendogli di entrare nel Ponto Eusino (il Mar Nero).
    Gli Argonauti cercano di parlamentare, Apsirto riconosce il merito di Giasone ma Medea deve ritornare nella Colchide.Gli Argonauti propongono che Medea si ritiri nel santuario di Artemide affich‚ la sua sorte venga discussa con imparzialità.
    Medea irritata minaccia di dare fuoco alla nave se Giasone si azzarderà ad accettare queste condizioni. Niente al mondo la farà ritornare sui suoi passi e per nessun motivo al mondo lo abbandonerà.
    Medea dichiara anche che provvederà personalmente ad Apsirto, permettendo agli Argonauti di battere facilmente un esercito privo di capo: spaventato da questa violenza, Giasone acconsente.


    Giasone uccide Apsirto

    Approfittando della tregua Medea da appuntamento al fratello, il giovane accetta ma ad aspettarlo c’è Giasone, che lo uccide.
    Ripartiti, ne dilaniano il corpo, gettando le membra una dopo l'altra in mare costringendo Eete a rallentare per raccogliere i resti del figlio: grazie a questo rivoltante stratagemma Giasone e Medea riescono a sfuggirgli.


    Gli dei chiedono la purificazione di Giasone

    La morte di Apsirto chiede vendetta agli dei, l'Argo procede a forza di remi quando si sente la voce dell'oracolo di Zeus.
    Dall'alto della polena dice che il sangue di Apsirto macchia le mani di Giasone e Medea: se non si purificheranno nessuno di loro, Argonauti compresi, riuscirà a rimettere piede in Grecia.
    Castore e Polluce invocano gli dei dell'Olimpo che scatenano un uragano che spingerà l'Argo sull'Eridano (odierno Po).
    La nave segue poi il corso del Rodano per riguadagnare il Mediterraneo, rifugiandosi nell'isola di Eea lungo la costa orientale dell'Italia .
    Questo È il regno della maga Circe, sorella di Eete e zia di Medea. La maga purifica Giasone e Medea ma si rifiuta di dar loro ospitalità.


    Scilla e Cariddi

    Col cuore tremante gli Argonauti risalgono a bordo e si preparano ad affrontare le sirene oltre ai terribili pericoli di Scilla e Cariddi .
    Orfeo salva gli Argonauti dal canto delle sirene traendo dalla sua lira una musica ancora più sinuosa della loro.
    Nello stretto di Messina si trovava il vortice di Cariddi davanti al quale era posto uno scoglio temibile, sorvegliato da un mostro. I marinai che si trovavano in quel luogo spesso evitavano il primo e, credendo di essere in salvo, si facevano divorare dal secondo. Ma in loro aiuto, Era, Teti e le Nereidi guidano la nave per farle attraversare lo stretto senza danni.


    Gli argonauti arrivano a Corfù

    Gli Argonauti approdano all'isola di Corcira (Corfù), accolti calorosamente dal re Alcinoo. Non fanno in tempo a sbarcare, che anche un contingente di soldati della Colchide arriva all'isola, chiedendo ad Alcinoo di consegnare loro Medea, in caso di rifiuto distruggeranno Corcida.
    Alcinoo temporeggia e Medea ricorda agli Argonauti i suoi servigi, quindi si reca dalla regina Arete, pregandola di intervenire in suo favore.
    Alcinoo prende la decisione di rendere Medea ai colchidi in quanto non sposata a Giasone; Arete esce da palazzo e si reca al campo degli Argonauti, consigliando Giasone e Medea di sposarsi immediatamente.


    Matrimonio tra Medea e Giasone

    I due si sposano, nonostante il loro desiderio di celebrare le nozze nel regno di Giasone.
    Alcinoo rende noto ai colchici che Medea È sposa di Giasone e che quindi non può consegnarla a loro, anche se con frasi minacciose i colchici si arrendono alle ragioni del re, ma lo supplicano di lasciare che si stabiliscano nell'isola, sicuri che Eete li ucciderebbe se ritornassero in patria senza sua figlia.
    Alcinoo accetta e gli Argonauti riprendono il mare.


    La Libia

    Mentre stanno per doppiare il Peloponneso una tempesta li fa deviare dalla rotta. La tempesta dura nove giorni e li porta fino in Libia, sulla riva delle Sirti. La nave si incaglia nella sabbia ed il mare, ritirandosi, li lascia in mezzo ad un arido deserto, senza speranze e senza forze. In molti perdono la vita, tra gli altri Mopso.
    Le ninfe della riva libica e le Espiree vengono in aiuto degli eroi, dando loro cibo e raccontando ad essi di come Eracle abbia rubato i pomi d'oro del loro giardino.
    Addolorati per la perdita dei compagni, gli Argonauti tirano la loro barca fino al mare con l'alzaia, ma ignorano la loro posizione. Orfeo ricorda a Giasone che egli possiede uno dei tripodi dell'oracolo di Delfi consegnatoli da Apollo. Arrivati alla riva gli Argonauti vi depongono il tripode: subito appare Tritone che indica loro la rotta da seguire.
    Giasone gli offre il tripode sacro ed in suo onore sacrifica anche un montone, in ringraziamento, Tritone rimorchia l'Argo fino in mare aperto.
    Giasone si dirige verso Creta dove li attendono altri pericoli.


    Creta e il gigante Talo

    Creta È custodita da Talo un gigante di bronzo creato da Efesto. La sua vita è legata ad un'unica vena che dalla testa arriva al tallone.
    Il gigante cerca di staccare delle rocce da scagliare sull'Argo, ma in quel momento Medea gli manda visioni malefiche, che gli fanno perdere l'equilibrio, scalfendosi la caviglia: la vena si rompe ed il sangue gli sgorga a fiotti. Talo si abbatte morto sulla riva.

    Apollo li aiuta a tornare a Iolco

    Apollo concede loro una luce affinché non si perdano nella notte, conducendoli in mezzo alle isole del Mare Egeo. Giasone ed i suoi compagni ritornano infine a Iolco, con il vello d'oro.


    Morte di Pelia

    Tornati a Iolco, la moglie Medea pensò di uccidere l'usurpatore Pelia. Medea mostro alle figlie del re un metodo per poter ridare la giovinezza, taglio un montone in tredici parti e lo mise a bollire in un pentolone con delle erbe magiche: ne uscì un agnello.
    Le principesse impressionate, vollero fare lo stesso con il padre, lo tagliarono a pezzi e lo misero a bollire, ma le erbe di Medea non erano le stesse e il padre non tornò in vita.
    Questo delitto sconvolse il popolo e soprattutto il figlio di Pelia, Acasto, che ebbe modo di far bandire dalla città Giasone e la moglie.


    La fuga da Iolco

    La coppia si diresse verso Efira, nelle vicinanze di Corinto, dove Giasone fece incagliare la nave Argo, offrendola a Poseidone. Il vello d'oro venne appeso nel tempio di Zeus a Orcomeno.
    Per un certo tempo i due vissero a Corinto, con i loro due figli.
    Giasone non poteva più sopportare di essere un proscritto e si decise ad abbandonare la moglie, per sposare la principessa corinzia Glauce. Quando Medea lo seppe, cercò di convincere Giasone a non abbandonarla, ma vedendosi respinta senza pietà, uccise i suoi due figli e la principessa Glauce, fuggendo ad Atene, sotto la protezione di re Egeo.

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    00 01/06/2006 20:38
    ACHILLE
    Achille è uno dei principali eroi leggendari greci della guerra di Troia e il protagonista dell'Iliade, il poema di Omero che narra le vicende dell'ultimo anno di quella guerra. È figlio di Peleo, re di Ftia, una città localizzata nella regione della Tessaglia, e di Teti, una dea marina, figlia di Nereo. Quest’ultima era così bella che sia Zeus che Poseidone avrebbero voluto sposarla, ma sapendo che essa avrebbe dato alla luce un figlio più forte del padre e temendo perciò di venirne spodestati, rinunciarono alle nozze a favore del mortale Peleo.


    Secondo una tradizione posteriore ad Omero, quando Achille era ancora bambino, Teti lo rese invulnerabile immergendolo nelle acque del fiume Stige. Tuttavia, nell'immergerlo, lo resse per il tallone, che quindi rimase vulnerabile.
    Ella tentò allora di renderlo immortale sottoponendolo al rito del fuoco, rito mediante il quale si sarebbe bruciato tutto ciò che di mortale vi era in lui. Ma la cerimonia non poté essere portata a termine in quanto il padre, non avvertito di ciò, scorgendo il figlio avvolto nel fuoco lanciò spaventato un urlo che ruppe l’atto magico. Teti affidò allora Achille al saggio centauro Chirone, affinché lo istruisse e fu così che egli crebbe e apprese l’arte di guarire.

    Gli antichi narratori non riuscirono mai a collegare tra loro le singole storie senza entrare in contraddizione, pertanto non è chiaro se alcuni fatti accaddero primo o dopo. Resta tuttavia chiaro che ad un certo punto i capi greci si riunirono attorno ad Agamennone per riportare in patria Elena, la sposa di Menelao, e cominciarono i preparativi (durati dieci anni) per la guerra di Troia.

    Teti, sapendo che se suo figlio vi avesse partecipato avrebbe perso la vita, lo sottrasse allora a Chirone, lo vestì di abiti femminili e infine, lo nascose alla corte di Licomede, re di Sciro, dove, in ragione del colore dei capelli, visse con il nome Pirra (il cui significato è “la bionda rossiccia”) assieme alle figlie del re.

    Purtroppo però l’indovino dell’esercito, Calcante, rivelò che senza l’arco di Èrcole e il giovane Achille figlio di Teti e di Peleo, Troia non sarebbe mai caduta. Ulisse, che in un primo tempo si era finto pazzo per sottrarsi alla guerra, si assunse l’incarico della sua ricerca. Avendo saputo dove Achille si nascondeva, si recò alla corte di Sciro travestito da mercante e giunto davanti al re e alle fanciulle della corte espose tutte le vesti ed i gioielli che portava seco. Tra queste mise in bella evidenza uno scudo e una lancia. Indi mentre le fanciulle erano intente ad ammirare la merce fece squillare le trombe di guerra. Immediatamente tutte fuggirono, tutte tranne una che corse ad afferrare le armi. Inutile dire chi fosse e che accettò con entusiasmo di andare in guerra.

    Licomede diede in sposa ad Achille la figlia Deidamia(che significa “colei che obbliga i nemici”) e da quell'unione nacque il futuro guerriero dal doppio nome: Pirro “il biondo rossiccio” e Neottolemo “il rinnovatore della guerra”, il quale, dopo la morte del padre si unì ai greci che ancora combattevano per la conquista di Troia distinguendosi per forza ed audacia tanto quanto il grande pelide.

    Terminati i grandi preparativi la flotta greca partì. Nei primi nove anni Achille, a capo dei Mirmidoni, conquista e saccheggia alcune città intorno a Troia. Giunge pure nell’isola di Lesbo dove, come preda di guerra, prende alcune donne esperte che regala ad Agamennone, tenendo per se Diomede. A Lirnesso fa prigioniera Briseide mentre Agamennone durante la conquista di Tebe cattura Criseide

    Achille nell'Iliade

    Achille è il personaggio centrale dell'Iliade, in quanto Omero non vuole descrivere l'assedio di Troia, ma l'ira di Achille.

    Egli vi è giunto ben sapendo che vi troverà la morte!

    Il motivo dell’ira è presto detto. Crise, padre di Criseide e sacerdote di Apollo, dopo essersi recato da Agamennone e avergli implorato la restituzione della figlia in cambio di un grande riscatto viene cacciato da in malo modo dopo essere stato insultato. Con questa azione Agamennone attira su di sé le ire del dio Apollo il quale, per punirlo, provoca una grande pestilenza nelle file dell'esercito greco.
    Vista la sventura l’indovino Calcante allora rivela ad Agamennone che la pestilenza avrà termine solo con la restituzione di Criseide. Di malavoglia Agamennone accetta, ma esige in cambio Briseide, la prigioniera di Achille.
    Furente, Achille si ritira nella sua tenda, rifiutandosi da quel momento di combattere.

    In sua assenza, i Troiani sembrano prevalere: nel corso di una grande battaglia, essi giungono ad attaccare il campo greco e minacciano di dare fuoco alle navi. A questo punto Patroclo, scudiero e amico carissimo di Achille, ottiene da lui il permesso di contrattaccare alla testa dei Mirmidoni, indossando le sue armi. Patroclo respinge l'assalto e tenta più volte di scalare le mura di Troia, ma viene affrontato e ucciso da Ettore.

    Achille dimentica allora la sua ira e decide di tornare a combattere: Teti gli fa costruire da Efesto una nuova armatura, poiché quella che aveva è stata presa da Ettore, e Achille si rituffa nella battaglia menando strage di Troiani. Infine affronta Ettore in duello e lo uccide, nonostante sua madre gli avesse predetto che alla morte di Ettore sarebbe seguita ben presto la sua.
    Infine per vendicarsi dell'amico ucciso, trascina con il carro il cadavere di Ettore facendone scempio; quando però Priamo si reca nottetempo al campo greco e implorandogli di restituirne il corpo, si commuove ed acconsente.
    L'Iliade termina con i funerali di Ettore.

    Achille oltre l’Iliade e sua fine

    Malgrado la morte di Ettore la guerra continuò e altri alleati giunsero in soccorso a Troia per sfidare Achille. Giunse Pentesilea, regina delle Amazzoni, che, con poca fortuna, si scagliò contro di lui al termine dei funerali di Ettore. Solo quando la colpì al petto rompendone l'armatura Achille conobbe la sua bellezza. Troppo tardi!
    Intenerito dalla sua bellezza, l'eroe greco pianse sul suo corpo e la fece seppellire con tutti gli onori.
    Giunse anche il bel Memnone, figlio della dea Eos, ma anch’egli subì la stessa sorte!

    A questo punto, esaltato dalla vittoria ottenuta sul figlio di una dea e scordatesi le antiche predizioni, Achille si lanciò assieme all’esercito greco alla conquista di Troia.
    Purtroppo però al proprio destino non si sfugge e mentre era all’inseguimento di un gruppo di fuggitivi nei pressi delle porte Scee, Paride lo vide e tirata una freccia dalla sua faretra la scagliò contro il re dei mirmidoni. Quest'ultima, guidata da Apollo colpì Achille a quel tallone non bagnato dallo Stige, uccidendolo. E fu così che anch’egli trovò la fine della sua gloriosa vita.

    La lotta per il cadavere durò un giorno. Infine Zeus vi pose fine con un temporale.
    Tetide accompagnata da tutte le dee del mare ne raccolse allora il corpo e lo vegliò per diciassette giorni, onorato da pianti e lamenti di mortali e di immortali. Infine il diciottesimo giorno, ornato come un dio fu posto su una pira e inumato.




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    00 01/06/2006 20:42
    AIACE
    Aiace di Locride

    Aiace di Locride è una figura della mitologia greca, era figlio di Oileo.

    Guidò le sue truppe alla conquista di Troia, nell'esercito degli Achei.
    Ottimo arciere ed il più veloce nella corsa tra tutti gli achei; ma era anche arrogante e rozzo. Atena si vendicò di lui facendogli fare una figura meschina nei giochi funebri per la morte di Patroclo: durante la corsa, scivolò su uno strato di letame, cadde e perse la gara, che vide la vittoria di Ulisse (Iliade, libro XXIII).

    Nell'Odissea (libro IV), Menelao racconta che, quando Aiace lasciò Troia per tornare in patria, la sua nave venne affondata da una tempesta. Poseidone lo aiutò a ritornare a riva, facendolo riparare su uno scoglio. Aiace si vantò di essere sopravvissuto senza aiuto alcuno, al che, Poseidone infranse lo scoglio con il suo tridente, facendolo ricadere in mare, dove annegò.


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    00 28/06/2006 21:13
    Thor
    Thor (Þórr in antico nordico) è una delle principali divinità dei Vichinghi, noto come il dio del tuono e del fulmine. La mitologia nordica è ricca di racconti sulle gesta di Thor e sulla sua perenne lotta contro i giganti.

    Origini mitologiche

    Figlio di Odino, re degli dèi, e di Jörd, dea della terra, era il più forte degli Æsir e dunque la sua dimora era ad Ásgarðr, nel Trudheimr, un castello nelle terre di Bilskirnir. Mentre Odino era considerato re degli dei, Thor era un po' più il dio degli uomini, infatti era molto amato dagli scandinavi, probabilmente più di Odino, tanto che i Vichinghi si definivano Popolo di Thor. Sua moglie si chiamava Sif, ma poco si conosce di lei a parte che avesse i capelli d'oro, fabbricati per lei dai nani dopo che Loki le aveva tagliato i suoi. Con Jarnsaxa ebbe come figlio Magni mentre con Sif ebbe Thrud e Modi; aveva anche un figliastro Ullr che era in realtà solo figlio di Sif.

    Gli oggetti di Thor

    La sua forza, già leggendaria, era aumentata da tre oggetti che non abbandonava mai e che lo rendevano quasi invincibile: una cintura che raddoppiava la forza di chi la indossava, un paio di guanti di ferro ed il leggendario martello Mjölnir. Il suo mezzo di spostamento era un carro trainato da due capre (Tanngnjóstr e Tanngrisnir). Anche questi animali avevano proprietà portentose: spesso Thor quando era in viaggio li mangiava per cena visto che, conservando la pelle e le ossa, il mattino dopo sarebbero stati di nuovo vivi.

    Nelle sue soventi scorrerie era spesso accompagnato da Loki.

    Nel corso del Ragnarök, Thor ucciderà e sarà ucciso da Miðgarðsormr, il serpente di Miðgarðr (la Terra): Thor ucciderà il serpente, ma, ammorbato dal suo soffio velenoso, farà solo nove passi prima di cadere a sua volta a terra morto.

    Altri nomi

    * Ása-Þórr, che significa Thor degli Aesir, il dio più importante.
    * Öku-Þórr (Thor la guida), un riferimento al carro, trainato dalle capre magiche, col quale viaggia per la terra e per il cielo
    * Tor (Svedese e Norvegese)
    * Thor (Danese)
    * Þórr (antico nordico)
    * Þór (Islandese)
    * Donar (Olandese)
    * Donner (tedesco)

    Thor oggi

    Del mito di Thor oggi sono rimaste alcune testimonianze in alcuni nomi che derivano proprio dalla parola Thor:

    * Il nome inglese del giorno di giovedì (Thursday) è in onore di Thor.
    * La parola inglese per tuono (thunder) sembra collegata alla parola Thor poiché quando il dio colpiva qualcosa con il suo martello, si udivano rombi di tuono.

    Il nome Þor è tuttora usato come nome proprio in Islanda.

    Alla figura del dio del tuono è ispirato anche un celebre personaggio dei fumetti della Marvel Comics: il mitico Thor; e un personaggio della serie tv di fantascienza Stargate SG-1: Thor, il comandante supremo della flotta Asgard.



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    00 28/06/2006 21:15
    Odino
    Odino (in antico nordico Óðinn, Wotan in germanico, più raramente Ygg) è la principale divinità del pantheon norreno.

    Capo degli Æsir, gli dei norreni, dio della saggezza e della guerra. Figlio di Bor e della gigantessa Bestla e fratello di Vili e Ve (detti anche Hoenir Lodur), marito di Frigga e padre di Thor. Il mito tramanda come abbia donato un occhio al gigante Mimir in cambio della saggezza. Nella mitologia norrena Odino guiderà gli dei e gli uomini contro i giganti nella battaglia finale quando giungerà il Ragnarök, la fine del mondo. In battaglia Odino brandisce Gungnir, la sua lancia e cavalca Sleipnir, un cavallo ad otto zampe. Come dio guerriero raduna i morti in battaglia nel Valhalla, gli einherjar, ove presiede il banchetto di questi. Un importante tempio di Odino sorgeva ad Uppsala in Svezia. Nella leggenda popolare Odino è alla testa della caccia selvaggia , un corteo notturno che terrorizza coloro che malauguratamente lo incontrano. Tipica religione indoeuropea, rappresenta in sé la forza ed il vigore di popoli che non desiderano altro che non la forza in sé stessi e nella stirpe da cui traggono l'intima fonte del loro agire, sino a trattare gli Dei da pari a pari; di contro alle religioni semite che vedono nella sottomissione dell'uomo a Dio, e nella sua schiavitù assoluta la fonte della loro religiosità. Odino rappresenta una religiosità nordica inconciliabile con le più moderne credenze religiose di ceppo abramitico che rappresentano uno iato spirituale fra l'antico mondo classico e quello moderno, anche se, lentamente, come riconosciuto dal Vaticano stesso, il paganesimo sta facendo lentamente ritorno in Europa.

    Odino infatti è anche la massima divinità dell'Odinismo, un moderno culto neopagano.

    Curiosità

    * Ad Odino è stata intitolata la regione pianeggiante di Odin Planitia, situata sulla superficie di Mercurio.



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